A 150 anni esatti dalla sua morte, quella del compositore e pianista Aleksandr Skrjabin (1872-1915) si afferma come una figura a sé nella storia della musica russa a cavallo tra XIX e XX secolo. Lontano dalle posizioni di recupero delle tradizioni nazionali sostenute dal cosiddetto “Gruppo dei Cinque” (formato da Balakirev, Cui, Musorgskij, Rimskij-Korsakov e Borodin), prende anche apparentemente le distanze dalla scuola occidentale europea di orientamento germanico per dare vita a una sintesi personale, più vicina alla lezione del sommo Chopin.
Le sue prime creazioni appaiono debitrici di un modello di ispirazione romantica che coincide totalmente con lo strumento prediletto attraverso cui trova espressione un complesso universo di drammi, sentimenti e passioni: il pianoforte, quasi una “voce” per Skrjabin, in grado di tradurre in poesia le emozioni più intime e autentiche, nel tentativo di dare vita alla miracolosa coincidenza tra la scintilla creativa del compositore e lo stato d’animo dell’ascoltatore. Il mondo di riferimento è soprattutto quello delle miniature e delle forme brevi di chiara ascendenza chopiniana, che evocano intense suggestioni: si tratta di valzer, mazurche, preludi, notturni, studi e improvvisi, come se l’allievo riprendesse a distanza di decenni le lezioni sospese dal maestro.
Influenze che si riverberano anche nel suo primo e unico Concerto per pianoforte e orchestra, quello in fa diesis minore op. 20, composto tra l’autunno del 1896 e il maggio del 1897 ed eseguito a Odessa il 23 ottobre 1897, con l’autore nella veste di solista. Si tratta di uno degli ultimi lavori che cristallizzano lo stile della prima maniera di Skrjabin, scritto a ridosso del deciso mutamento di concezione estetica che lo porterà in seguito ad adottare un linguaggio maggiormente orientato verso quell’impronta più sperimentale, visionaria e finanche mistica che caratterizzerà le sue opere mature (si pensi al celebre Poema dell’estasi).
Articolato in tre movimenti, il Concerto per pianoforte op. 20 si impone per equilibrio, grazia ed eleganza; una pagina in cui si bilanciano virtuosismo tecnico e varietà di idee melodiche, che si contraddistingue per un andamento rapsodico in grado di sbalzare in rilievo una parte pianistica estremamente brillante, riservando nel contempo all’orchestra un ruolo quasi da comprimario.
L’Allegro iniziale viene forgiato nella classica forma-sonata, che nella sezione espositiva vede la successione di tre temi: il primo, affidato al solista dopo una breve introduzione orchestrale, è un motivo di conio evidentemente chopiniano, poi sviluppato dagli archi; il secondo tema ha invece uno spirito danzante, con il pianoforte contrappuntato dai clarinetti, mentre il terzo si distende in un dialogo arabescato tra pianoforte e corno. I motivi vengono dunque sviluppati in episodi a tratti contrastanti e carichi di tensione, per poi essere riproposti nella Ripresa, dove il primo tema emerge con grande pathos e ritorna infine nella solenne Coda conclusiva.
Il nostalgico Andante centrale si struttura in un tema introdotto dall’orchestra e in una sequenza di brevi variazioni: nella prima gli archi enunciano il motivo, che passa poi al clarinetto con un delicato accompagnamento in arpeggi del pianoforte; la successiva variazione è caratterizzata da accenti folclorici e da una spiccata instabilità ritmica, mentre con la terza l’atmosfera si fa più cupa e pare richiamare l’incedere di una marcia funebre. Il clima cambia nuovamente e si rasserena con la quarta variante, mentre il movimento termina con il ritorno del tema all’orchestra.
Il motivo principale dell’Allegro moderato finale è caratterizzato da un frenetico arpeggio che vola verso l’alto della tastiera, ma è il cantabile soggetto secondario a rimanere impresso nella memoria. Il movimento si gioca sulla successione variata di questi due elementi e termina con una coda estesa che rappresenta il culmine dell’intero Concerto e che sembra idealmente aprire le porte verso l’impronta stilistica del “nuovo” Skrjabin.