Il direttore principale Riccardo Chailly ha accettato di dirigere il concerto della Filarmonica della Scala previsto per lunedì 7 marzo alle ore 20 al Teatro alla Scala sostituendo Valery Gergiev.
Il programma della serata subisce una variazione: la nuova locandina presenta il Concerto n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov e la Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 Patetica di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Confermata la presenza del giovanissimo solista Mao Fujita alla sua prima esibizione in Italia.
Mao Fujita ha ricevuto la Medaglia d’Argento alla International Tchaikovsky Competition di Mosca nel 2019 e il Primo Premio al Concours International de Piano Clara Haskil nel 2017. Si è esibito al fianco delle principali orchestre internazionali. Nell’ultima stagione ha debuttato alla Wigmore Hall di Londra e ha interpretato l’integrale delle sonate di Mozart al Festival di Verbier.
La Filarmonica della Scala e Riccardo Chailly dedicano il concerto alle vittime della guerra e alla pace.
Biglietti in vendita da lunedì 7 febbraio 2022 ore 14.00
Concerto n. 3 in re min. op. 30 per pianoforte e orchestra
Sinfonia n. 6 in si min. op. 74 Patetica
per gentile concessione del Teatro alla Scala
Quando nel 1996 apparve il film Shine, del registra australiano Scott Hicks, la richiesta di dischi con il Concerto n. 3 di Rachmaninov crebbe a tal punto che non pochi negozi allestirono un palchetto con bene in vista il cartello “Rach 3”. Il film raccontava la vicenda di un ragazzo a cui un ambizioso padre-padrone violento e brutale aveva imposto come prova di dedizione filiale di studiare prematuramente il Terzo Concerto, di un ragazzo che ci aveva provato con tutte le sue forze e che, non riuscendo nell’impresa, era caduto in uno stato di prostrazione nervosa tale da richiedere lunghi e ripetuti ricoveri in cliniche psichiatriche. Il protagonista ormai maturo d’anni veniva poi “risanato” da un’infermiera che lo sposava, e iniziava con successo la carriera. Questa vicenda non era di pura invenzione ma trasferiva sullo schermo, romanzandola, la storia del pianista australiano David Helfgott. Il film ottenne uno straordinario successo sia perché era un prodotto che miscelava abilmente temi drammaturgici cari al pubblico, sia perché il ruolo del padre-padrone era sostenuto da Armin Müller-Stahl, che in un altro film di grande successo uscito cinque anni prima, Musical box, aveva impersonato la bieca figura di un nazista torturatore e assassino. Inoltre, il maestro che, senza esserne troppo convinto, cercava di insegnare al ragazzo il Rach 3 era tratteggiato con grande efficacia istrionica da Sir John Gielgud. E così il film spopolò e David Helfgott venne invitato a suonare in tutto il mondo, dimostrando soltanto di non essere all’altezza né del Rach 3, né di altri pezzi di grande impegno. Chi avesse la curiosità di sentirla troverà tuttavia in disco la sua esecuzione del Terzo di Rachmaninov, sotto la direzione di Milan Horvat. È veramente così difficile, il Concerto n. 3 di Rachmaninov? È certamente difficile, ma non pochi ragazzini di dodici-tredici anni riescono a venir a capo della miriade di note che contiene. La sua vera, la sua autentica difficoltà non risiede in realtà nelle note ma, come dirò poi, nel modo in cui si suonano. Rachmaninov, che aveva alla fine “sfondato” nella vita concertistica internazionale con il Concerto n. 2, all’inizio del 1909 venne invitato negli Stati Uniti, dove non era mai stato. Del Concerto n. 1 scritto a diciott’anni non si fidava, e il Concerto n. 2 era già noto anche in America, dov’era stato eseguito da vari pianisti. Per il successo della tournée sembrava dunque consigliabile sbarcar negli States con un nuovo concerto, scritto appositamente. E così Rachmaninov si mise a comporre il Concerto n. 3, che fu scritto fra l’ultima decade di maggio e l’estate. Terminato il pezzo, bisognava studiarlo. Rachmaninov lo lavorò un po’ a casa e poi, molto, nel viaggio in transatlantico, su una tastiera muta. Arrivato a New York ai primi di novembre, Rachmaninov iniziò la tournée con dei recital di musiche sue e suonando il Concerto n. 2 in cinque città degli Stati Uniti e a Toronto. Il 28 e il 30 novembre presentò il Concerto n. 3 a New York, sotto la direzione di Walter Damrosch. Il pubblico, che s’aspettava una replica del malioso Concerto n. 2, restò deluso, la critica fu arcigna. Noi sappiamo, perché abbiamo di lui molti dischi, come suonava Rachmaninov dopo il 1920, ma non sappiamo come suonava prima. Già all’esordio a New York un critico aveva osservato che il suo suono non eccelleva per bellezza e varietà. Un altro scrisse che molti pianisti avrebbero potuto rendere la parte solistica del Concerto n. 3 meglio dell’autore. Insomma, i calcoli di Rachmaninov si dimostrarono sbagliati alla verifica dei fatti, e il suo nuovo concerto non ottenne la rivincita nemmeno quando, il 16 gennaio 1910, fu nuovamente eseguito sotto la direzione di Gustav Mahler. E sì che la preparazione curata da Mahler era stata meticolosissima. Vent’anni più tardi Rachmaninov avrebbe ricordato in questi termini l’episodio: «Sebbene la prova fosse programmata fino alle 12.30 continuammo a lavorare ben oltre questo termine, e quando Mahler disse che bisognava ripetere il primo tempo mi aspettavo proteste o scenate dai professori d’orchestra, ma non notai il minimo segno di fastidio. L’orchestra risuonò il primo tempo con grande e persino maggior impegno di prima».
Tornato in Europa, Rachmaninov suonò il Concerto n. 3 a Mosca in aprile e in novembre, a San Pietroburgo nel febbraio del 1911, a Londra e a Liverpool in autunno. Il solo Samuil Feinberg, studente nel conservatorio di Mosca, scelse il Terzo per il suo esame di diploma, nessun pianista celebre, nemmeno il dedicatario Josef Hofmann,
lo mise in repertorio, e Rachmaninov continuò a girare con il graditissimo Secondo che il pubblico non si stancava di ascoltare. L’inizio della popolarità del Concerto n. 3 fu dovuto alle esecuzioni di Horowitz alla fine degli anni venti. Gieseking alla fine degli anni Trenta e Gilels negli anni Cinquanta, oltre a Horowitz, contribuirono a far definitivamente accettare il pezzo, che verso il 1980 divenne il mito dei giovani pianisti, succedendo, se così si può dire, al Concerto n. 2 di Brahms che aveva turbato i sonni ed abitato i sogni dei loro padri.
Se si eccettua il Concerto di Busoni, che appartiene ad una ristrettissima minoranza di interpreti, non c’è concerto, per lo meno tra quelli in repertorio, più difficile del Secondo di Brahms e del Terzo di Rachmaninov. L’ordine di difficoltà è però diverso: il Concerto n. 2 di Brahms non si cura del povero pianista, messo di fronte a passi dall’impeccabile logica musicale ma tastieristicamente scomodissimi (“perversioni pianistiche”, li chiama Alfred Brendel), mentre il Concerto n. 3 di Rachmaninov esalta il pianista, il pianista, però, al quale sono richieste le doti di una étoile della danza. In altre parole, Brahms discende da Beethoven, Rachmaninov discende dal cosiddetto Biedermeier della prima metà dell’Ottocento (Hummel, Moscheles, Kalkbrenner, e per vari aspetti Chopin), da un Biedermeier che all’orchestra ha assegnato un ruolo di coprotagonista invece che di caudataria ma che non ha rinnegato un principio basilare: più il solista suona, meglio è. E di note il solista ne suona tante, nel Concerto n. 3 di Rachmaninov. Non ha neppure, salvo che nel secondo tempo, le esposizioni e i collegamenti in cui l’orchestra viaggia da sola, lasciando tirare il fiato al pianista sovraccaricato di impegni.
L’estetica del concerto si modella qui sull’estetica del melodramma contemporaneo, perché l’opera di fine Ottocento ignora i pertichini, quei personaggi secondari, come Alisa nella Lucia di Lammermoor o Ines nel Trovatore, che, mettendo il becco nelle esternazioni del personaggio principale consentono a questi – cioè al cantante che lo impersona – di ben distendere i muscoli della gola prima di attaccare le acrobazie della cabaletta. L’orchestra di Rachmaninov, folta e densa, tende spesso a mangiarsi il suono del pianoforte, tanto che il pianista deve sottoporsi ad uno sforzo fisico non di poco conto, suonando a seconda dei casi con prevalenza del “peso” o con prevalenza di azione muscolare. Si tratta di due atteggiamenti del corpo diversi, ma Rachmaninov chiede al pianista di passare dall’uno all’altro senza preparazione. Del resto, conveniamone, Verdi risparmia forse Otello, costretto ad iniziare il primo atto con il grido stentoreo dell’Esultate e a finirlo con l’estasi di Venere splende? Wagner risparmia forse Sigfrido, risparmia forse Brunilde? Rachmaninov non risparmia il pianista perché vuole che al pianoforte ci sia un dio. I pianisti degli anni Dieci dissero “grazie, no”, i pianisti di un secolo dopo sono terribilmente tentati dal misurare se stessi sul Terzo.
Ed è dura. Perché Rachmaninov, al contrario ad esempio di un Hummel o di un Kalkbrenner, non vuole solo il virtuosismo, ma vuole per soprammercato che il virtuosismo sia lirico, non meccanico. Enrico Cecchetti, grande ballerino e soprattutto grande maître de ballet che negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento lavorò a lungo in Russia, dirigeva le lezioni di riscaldamento dei suoi poulains gridando in continuazione “cantare il passo”. E questa era anche la regola della scuola pianistica russa che nel Concerto n. 3 di Rachmaninov trovava il suo culmine. Horowitz e Gilels e lo stesso Rachmaninov nel disco che di lui abbiamo (e Gieseking, sia pure con molte imprecisioni di dettaglio) erano liricamente dei vulcani. E questo, al di là delle moltissime note che anche i ragazzini riescono oggi a dipanare, è il vero scoglio del Concerto n. 3, lo scoglio su cui i giovani pianisti si lanciano, sicuri di schivarlo all’ultimo momento. Qualche volta ci riescono, altre no. Ma la sfida al Rach 3 sprigiona oggi la potenza seduttiva di un canto di sirene.
Composizione: 1892-1893Prima esecuzione: San Pietroburgo, 16 ottobre 1893Organico: ottavino, tre flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti;quattro corni, due trombe, tre tromboni, basso tuba; timpani, percussioni; archi
«Durante il viaggio a Parigi mi venne l’idea di una nuova sinfonia basata su un programma, che dovrà tuttavia restare segreto a tutti, un programma così ben celato, che nessuno sarà in grado di svelarlo, anche se dovesse rompervisi la testa. Questo programma riflette i miei sentimenti più intimi. In viaggio, mentre componevo mentalmente, scoppiai più di una volta a piangere, come se fossi in preda alla disperazione. Al ritorno mi misi a scrivere e lavorai così intensamente che in meno di quattro giorni portai a termine il primo movimento, mentre gli altri sono già nettamente delineati nel mio cervello».
Queste accorate parole del musicista russo, ritagliate da una lettera del febbraio 1893 indirizzata al nipote Bob, danno la misura di quanto, nel secondo Ottocento, l’ideale umanitario, libertario e cosmopolita della sinfonia beethoveniana si sia richiuso, romanticamente, entro una visuale soggettiva, per divenire nel presente caso addirittura un autoritratto musicale, o meglio un diario, intimo e irrivelabile. Intorno a questa composizione ‒ tra le più note e amate del repertorio ‒ cui l’autore volle apporre il sottotitolo di Patetičeskaja (così rivela l’intestazione del manoscritto), aleggia un’aura funerea, collegata a luttuose circostanze biografiche. La Sesta Sinfonia fu infatti l’ultima pagina scritta da Čajkovskij, che la diresse per la prima volta a San Pietroburgo il 16 ottobre 1893. Nella locandina di quel concerto dell’Associazione di musica russa non appare ancora il celebre sottotitolo, che in un primo tempo avrebbe dovuto essere Tragica, e divenne in seguito Patetica, pare, su suggerimento di Modest, fratello del musicista e in seguito suo poco attendibile biografo. Čajkovskij, che non mancava talora di spirito autocritico, dimostrò di stimare particolarmente questa sua Sesta Sinfonia: «La considero, fra quanto ho scritto finora, la mia opera migliore: e so che essa è, soprattutto, la più sincera. L’amo come non ho amato mai nessuno dei miei parti musicali». La sinfonia fu invece accolta dagli esperti e dal pubblico con una certa freddezza; è anche possibile che la delusione per il mancato successo di un’opera in cui l’autore credeva fermamente sia stata la causa indiretta della drammatica fine di Čajkovskij. Secondo la tradizione, il musicista si suicidò poco tempo dopo, bevendo acqua infetta; ma secondo rivelazioni più recenti, lo fece sotto la pressione di un gruppo di compagni della Scuola di Giurisprudenza, che, portandogli una pozione a base di cianuro, lo convinsero a evitare con la morte lo scandalo di una denuncia a suo carico per omosessualità, allora punita con la deportazione e la confisca dei beni, lesiva per il buon nome della scuola stessa. Aveva solo cinquantatré anni.
A uno dei due concerti commemorativi della scomparsa di Čajkovskij, il maestro Eduard Nápravník diresse la Patetica, che da allora, probabilmente anche in relazione alle circostanze collegate alla sua nascita, è considerata un’opera luttuosa, una specie di variopinto Requiem: in Unione Sovietica veniva ancora eseguita in occasione dei funerali di grandi personaggi. L’uso, per inciso, non ci pare troppo appropriato, poiché la Patetica, più che un corale compianto funebre, pare un compiaciuto canto della disperazione, pieno di esasperate effusioni sentimentali, di retorica oratoriale e di conturbanti sfoghi nevrotici di un uomo soggiogato dallo sconforto. Su quali siano, poi, in questa parabola di patemi romantici, i “sentimenti più intimi” cui Čajkovskij faceva cenno, preoccupato del loro anonimato, non è forse difficile fare ipotesi. Il musicista, ipersensibile e desideroso d’affetto, ebbe un’infelice situazione esistenziale per quanto riguarda la sfera amorosa ‒ un matrimonio fallito, molto probabilmente il peso di un’omosessualità scomoda per quei tempi ‒ e le sue necessità sentimentali, il suo bisogno d’amore non furono appagati in pieno. Per di più, all’epoca della stesura della Patetica era venuto meno anche il sostegno, non solo finanziario, della sua amica e mecenate Nadežda Filaretovna von Meck.
Formalmente la Patetica è una sinfonia atipica. Rispetto alle precedenti sinfonie di Čajkovskij, presenta la mancanza di quel tema ricorrente che aveva caratterizzato la Quarta e la Quinta Sinfonia. Inoltre, in deroga alle consuetudini sinfoniche, la Sesta Sinfonia prevede un movimento lento a conclusione dell’opera. Questo è il colpo di genio, l’idea rivoluzionaria che incarna il pessimismo passivo e il personale
decadentismo čajkovskijani. Molti anni fa, discorrendo col compianto critico Massimo Mila sull’opportunità di applaudire fra un brano e l’altro di un concerto, il celebre critico torinese si mostrava favorevole all’usanza ottocentesca di battere le mani anche fra un tempo e l’altro di una sinfonia: «Ci sono casi – diceva – in cui l’applauso viene spontaneo. Pensi alla Patetica: chi si può immaginare che dopo lo Scherzo ci sia ancora tutta quella lagna...». Parole, queste, di detrattore accanito di Čajkovskij, che rendono bene tuttavia il ragionamento formale del musicista. La sua coscienza artistica, spesso paga di effetti superficiali e clamorosi, si è orientata un poco anche nella Patetica in questa direzione. Allo Scherzo (Allegro molto vivace), in ritmo di marcia incalzante, viene data una conclusione con carattere di “gran finale”: un trionfo illusorio, poiché, dopo aver zittito chi puntualmente applaude, si piomba nella depressione nera del celebre Adagio lamentoso. Il contrasto è così riuscito da avere spinto Mahler ‒ un musicista che deve qualcosa, anche secondo il parere di Stravinskij, a Čajkovskij ‒ ad adottare, molto a grandi linee, una forma simile nella sua Nona Sinfonia.
La Patetica è così dotata di una forma ciclica, nella quale i due movimenti estremi si assomigliano, mentre i due centrali, pur diversi tra loro, costituiscono un diversivo atto a esaltare il tono languente della pagina. Se Baudelaire vedeva nel Tannhäuser di Wagner un’invenzione melodica desunta dall’“intero dizionario delle onomatopee dell’amore”, analogamente nella Patetica si può scorgere quanto meno un ricco campionario delle onomatopee dello sconforto, del lamento e del pianto. L’introduzione (Adagio) al primo movimento funge, nella sua brevità, da dolente epigrafe alla sinfonia. L’Allegro non troppo che segue utilizza in tempo più rapido lo stesso tema, che è molto breve, quasi in forma d’inciso. Esso viene sviluppato e variato con “passeggiati” e “progressioni”, fino al raggiungimento di una notevole temperatura drammatica, che si spegne poi per fare luogo al secondo tema. Si tratta di un Andante dalla melodia suadente, quasi da operetta, ancora citata nella forma succinta di un’epigrafe, per trasformarsi in un Moderato mosso, dal carattere meno accorato. Ancora una volta il tema raggiunge un incandescente climax drammatico, per spegnersi, ora, in un diminuendo estenuato, senza fine, culminante in un pianissimo del fagotto dotato di sei “P”. Con un coup de théâtre clamoroso, ha inizio, sempre in questo primo movimento, la sezione degli sviluppi: esplode un fortissimo terrifico, da cui si diparte, entro un’atmosfera convulsa, un bellicoso fugato. Anche questo sfogo di collera improvvisa degrada, alla lunga, verso umori funerei: con grandiosa magniloquenza, sono i tromboni a incaricarsi di mimare questo sprofondare dell’autore nella depressione. Il secondo tema, quello “consolatorio”, viene ripreso, variato e gonfiato, fino a quando, dopo un ennesimo spegnimento tematico, una marcetta lenta conclude il movimento.
Il secondo tempo (Allegro con grazia) è una specie di scena danzata ricca di ritornelli, in cui lusso, sfarzo e maniere aristocratiche si sposano in una pagina che costituisce una sorta di diversivo. Curioso il tempo di 5/4, che permane anche nel lamentoso Trio, ove Čajkovskij annota “con dolcezza e flebile”. Anche la coda, dopo la ripresa da capo, ha qualcosa di funereo.
Lo Scherzo (Allegro molto vivace), che, come avverrà in alcune sinfonie di Šostakovič, è senza Trio, ha un andamento irresistibile. Forse ha ereditato l’idea del ritmo martellante dello Scherzo dalla Nona di Beethoven, che è tuttavia corredato di un Trio. Qui si assiste invece a una catena ininterrotta di effettistici crescendo, che puntano senza sosta verso il “falso finale” di cui s’è detto. Nella lunghissima coda, ricca di armonie variate, figurazioni vorticose, bagliori strumentali, scansioni virili, Čajkovskij s’atteggia a muscoloso Titano. La pagina, che lascia sempre con il fiato sospeso, si conclude con la stessa figurazione (terzina in levare) usata nelle ultime battute della Quinta Sinfonia.
Gettata la maschera, l’autore ricomincia da capo con la sua estenuante alternanza di sconforti e consolazioni, ma in questo Finale (Adagio lamentoso) non c’è via d’uscita: il secondo tema ‒ quello dal carattere consolatorio, eseguito “con dolcezza e devozione”, come dice l’indicazione interpretativa di Čajkovskij ‒ si ripiega su se stesso, trasformandosi in un’oscura marcia funebre, unico possibile epilogo della Patetica.
Direttore Principale della Filarmonica della Scala dal 2015 e Direttore Musicale del Teatro alla Scala dal 2017, Riccardo Chailly è uno dei direttori più rilevanti della sua generazione.
Read MoreCon un'innata sensibilità musicale e naturalezza nella sua arte, il pianista ventunenne Mao Fujita ha già impressionato molti grandi musicisti come uno di quei talenti speciali che si incontrano solo raramente, ugualmente a suo agio in Mozart come nel grande repertorio romantico.
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