Insignito del Premio Abbiati 2018 come miglior direttore d’orchestra, Juraj Valčuha torna con la Filarmonica della Scala a fianco del violinista ucraino Valeriy Sokolov, uno dei giovani artisti più talentosi della sua generazione. In programma il Concerto in re minore per violino di Khachaturian, un brano invaso da una profonda vitalità, insieme alla Sinfonia n. 1, composta da Šostakovič a soli diciannove anni e animata da un sincero e travolgente spirito giovanile.
Giornalista e critico musicale di Repubblica, presidente dell’Associazione Nazionale Critici Musical. Ha insegnato in Conservatorio e alla Scuola Holden. Vicedirettore di Musica Viva, conduttore di «Prima delle prime» e «Domenica in concerto», scrive di musica su Suonare news e Classic Voice.
Concerto in re minore - Aram Il’ič Chačaturjan
Nella rubrica storica dei compositori importanti – pensiamo a Gustav Holst o Samuel Barber – che nella memoria del pubblico ordinario vivono per un solo titolo, Aram Il’ič Chačaturjan ci sta comodo. Dopo un’effimera popolarità nell’immediato Dopoguerra quando l’esotismo orientaleggiante e “facile” delle sue partiture fu esportato in Occidente propagandando lo stile compositivo “democraticamente” inter-folkloristico e comunicativo incentivato dal regime sovietico, nei programmi concertistici odierni del corposo catalogo di Chačaturjan (Tbilisi, 6 giugno 1903 – Mosca, 1° maggio 1978) sono rimaste solo tracce. E nella conoscenza comune, il suo nome è da definizione enigmistica: l’autore della «Danza delle spade». Così. Nemmeno citando il balletto Gayane (1942), da cui quei fosforescenti tre minuti sono tratti. In realtà, il destino del pezzo, oggi noto anche nell’universo del pop, riassume la collocazione storico-critica sussidiaria di Chačaturjan che, per primo, capì quanto la popolarità della pagina che impasta cantabilità di un antico cerimoniale nuziale armeno e elettricità quasi jazzistica, «avrebbe distolto l’attenzione da tutte le altre mie opere».
È facile avere ragguagli sulla collocazione epigonica dello stile compositivo solido, stemperato dalla passione per la cultura armena e caucasica – nato e cresciuto in Georgia, vissuto dai vent’anni a Mosca, Chačaturjan è sepolto a Yerevan come un eroe nazionale – e in genere per le tradizioni musicali di tutte le Russie. Sappiamo dei rapporti ideologicamente-musicali di Chačaturjan col regime sovietico (nemmeno lui sfuggì alla censura, e nel 1948 fu accusato di «eccesso di formalismo») e dell’attività di didatta, organizzatore e animatore della vita musicale sovietica che gli valse una bacheca invidiabile di alti riconoscimenti, come il premio Lenin e il premio Stalin. Ma in concerto, ogni tanto si ascoltano come preziose eccezioni solo gli estratti sinfonici dall’altro grande balletto (Spartacus del 1955) e i tre importanti Concerti: per pianoforte (1936, scritto per Lev Oborin), violoncello (1946, per Sviatoslav Knouchevitsky) e, appunto, per violino (1940, per David Oistrach). Pensato più che solo dedicato a Oistrakh, che il compositore aveva ascoltato per la prima volta a Leningrado nel 1935 – dal diario di Chačaturjan: «quando il violinista attaccò il Concerto di Mendelssohn i giurati del Concorso smisero di prendere appunti sui loro bloc-notes per ascoltare meglio» – il Concerto per violino prese forma rapidamente, due mesi circa, nell’estate del 1940. Ancora fresco d’inchiostro, l’autore lo portò alla dacia di Oistrach per farglielo ascoltare al pianoforte: «suonai l’armonia con la mano sinistra, con la destra la parte del violino, intonando a voce alcune sezioni cantabili quando l’armonia necessitava de entrambe le mani. Oistrach leggeva attentamente la partitura. Mi pregò subito di lasciargliela per studiarla [...] due-tre giorni ricambiò la visita e con la sua pianista Zara Lévina, e lo suonò quasi a memoria». Nelle settimane successive sarà ovviamente Oistrach, protagonista della prima esecuzione (Mosca, 16 novembre, direttore Alecsandr Gauk) a mettere a fuoco a alcuni dettagli tecnici, tra cui una nuova cadenza per il finale dell’Allegro con fermezza. Tagliato tradizionalmente in tre tempi, il Concerto ha una struttura classica altrettanto prevedibile. Sull’introduzione orchestrale la linea del violino si insinua con disegni modulari salvo prendere sempre più corpo e perentorietà protagonistica, all’interno di una struttura in forma sonata e di una configurazione dialogica che distingue le responsabilità del solista da quelle dell’orchestra. Cantabilità e tinte crepuscolari, appena increspate da un breve episodio drammatico (prima della ripresa) intonacano il meditativo Andante sostenuto, cadenzato su un malinconico passo valzeristico. Struttura a rondò, ma echi popolareschi e danzanti spiccano nel virtuosistico Allegro perenne conclusivo. Vivacità, varietà e brillantezza ne sono una cifra travolgente. «I temi sono venuti in tale abbondanza che ho avuto difficoltà a metterli in ordine», scrisse Chačaturjan nei giorni di composizione.
Sinfonia n. 1 in fa minore op. 10 - Dmitrij Šostakovič
Non era ingenuo nemmeno da adolescente. Né nostalgico, Dmitrij Šostakovič. La Sinfonia in fa minore, apprezzata e diretta da Arturo Toscanini oltre che altri direttori della vecchia guardia (tra cui Otto Klemperer, Leopold Stokowski e Bruno Walter), non guarda al passato né vuole compiacere. Anche se nacque come prova di diploma al Conservatorio di Pietroburgo, il diciannovenne compositore impone maturità, talento sinfonico, e personalità. Col senno e la conoscenza del resto del catalogo (l’ultima Sinfonia è del 1971, quattro anni prima della morte), in questa partitura tutto è essenziale e scritto benissimo. E l’impronta del più significativo, fecondo e originale autore di sinfonie del Novecento è già ben marcata.
Il rapporto di Šostakovič con le forme classiche non fu episodico: compose, tra le altre cose, quindici Quartetti per archi, Trii, Quintetti e quindici Sinfonie, ben distribuite nel tempo. Partecipi degli stadi capitali nell’evoluzione del linguaggio-messaggio d’autore il cui percorso creativo è sempre stato in debito con le forme della tradizione ottocentesca. L’allievo Šostakovič prende le mosse da Mahler: sinfonismo schietto, saldato a una forma ben definita (la classica: quattro movimenti, con poche deroghe), concepito come riflesso di una realtà individuale non come manifesto. La Sinfonia in fa minore fu iniziata il 1° giugno del 1923, ottenuto il diploma di pianoforte. A tre mesi dal diciassettesimo compleanno. Mesi segnati dalla morte del padre e dalla scoperta di una tubercolosi linfatica sconfitta solo una decina di anni dopo. Completata nel 1925 la partitura ebbe la prima esecuzione il 12 maggio 1926, sotto la direzione di Nikolai Mal’ko. Per la prima volta il lavoro di un allievo veniva presentato in un concerto ufficiale della Filarmonica di Leningrado: «successo tempestoso per la Sinfonia di Mitja, si dovette replicare lo Scherzo», annotò sul suo diario Maximilian Steinberg, maestro di Šostakovič. Un anno dopo, Walter la diresse a Berlino, poco dopo debuttò a Vienna, Filadelfia, New York e fu diffusa via radio in tutta Europa. Subito considerata il manifesto sinfonico d’autore, non la prova scolastica d’uno studente molto dotato: «stupenda, soprattutto il primo movimento» disse Alban Berg dopo un ascolto radiofonico. Colpì i musicisti la confidenza del giovane Šostakovič con la scrittura orchestrale e il polistilismo estroso, uno dei caratteri più tipici, si manifesta con sicurezza già dalle prime misure. I vaghi riferimenti all’ortografia sinfonica di Hindemith e Prokofiev si combinano senza frizioni a gustosità timbriche e ritmiche che rimandano ai maestri pietroburghesi antichi (Borodin e Musorgskij, naturalmente ma anche Čajkovskij) e moderni (Rimskij-Korsakov e Stravinskij). Le suggestioni storiche sono saldate e vicendevolmente motivate dal senso del grottesco, dall’ironia amara, dalla facilità nell’esercitare la parodia dello Šostakovič maturo. Si coglie nel taglio acido spesso modale delle melodie, nei grumi armonici dissonanti, nel lirismo spoglio ma lancinante. Facile individuare nell’ossuto Scherzo - bissato alla prima, s’è detto – l’idiomatica firma d’autore. Il movimento, al secondo posto, si fonda sull’ossessività ritmica: asserita dal disegno virtuosistico degli archi è ridistribuita con fulminanti episodi imitativi alle altre sezioni, dove risalta l’ospitalità timbrica del pianoforte in orchestra (echi di Petroushka?) e un episodio centrale di sospesa cantabilità su cui galleggiano echi folkloristici e inattese scheletricità musicali.
Altrettanto “d’autore” – al di là del sorprendente Allegretto iniziale, segnato da enigmatiche e ingegnose economie musicali, compendiate dalla linea della tromba in sordina – suona l’ampio e lamentoso Lento collegato attraverso il gesto teatrale delle percussioni al non meno livido e inchiostrato avvio dell’Allegro molto che nelle ben distinte sezioni offre alla Prima sinfonia una conclusione espressivamente non univoca né consolatoria. La chiusa secca e militaresca ci regala qualche stilla di apparente giocosità ma nel breve episodio cantabile precedente il violino aveva resuscitato affabili echi vocalistici e misticheggianti eco wagneriane.
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Juraj
Valčuha
DIRETTORE
Insignito del Premio Abbiati 2018 come migliore direttore d'orchestra, Juraj Valčuha è Direttore Musicale del Teatro di San Carlo di Napoli, nonché Primo Direttore Ospite della Konzerthausorchester di Berlino.
Violinista ucraino, Valeriy Sokolov è uno tra gli artisti più talentuosi della sua generazione. Collabora regolarmente con le migliori orchestre del mondo, tra le quali Philharmonia Orchestra, Chamber Orchestra of Europe, Cleveland Orchestra, Tonhalle Orchestra Zürich, Rotterdam Philharmonic, City of Birmingham Symphony Orchestra, Tokyo Symphony, Moscow Philharmonic Orchestra, Seoul Philharmonic, Orchestre National de France e la Deutsche Kammerphilharmonie Bremen.